Franco Pedrina

Silvano Giannelli

Dal sogno alla realtà: ecco l’intinerario pittorico di Franco Pedrina, così come lo si può misurare nel confronto tra le sue prime prove di qualche anno fa e questa serie di dipinti 1968-69 ora raccolti alla Galleria Zanini di Roma. Partito dalla fantasia intesa come puro gioco dell’immaginazione, Pedrina è giunto infatti alla emozione poetica strappata alla natura circostante come qualcosa di inscindibile da ogni suo aspetto, anche il più minuto e frantumato.
L’osservazione vale a precisare un interesse e una direzione di ricerca, non certo a definire il valore dei risultati. A ogni modo, anche sorvolando sulla loro qualità già notevole, c’è da notare come si tratti di una scelta di contenuti che merita di essere valutata attentamente, se è vero, come è vero, che il Pedrina ha con essa operato un recupero culturale di primaria importanza.Sotto il profilo puramente critico e storico, non è infatti da trascurare il fatto che – esaurite le esperienze a volte raffinate cui lo sollecitava la sua istintiva sensibilità di sognatore epigono di Klee – il Pedrina si trova oggi agganciato a posizioni di ben altro mordente e di più viva attualità: aperto, come egli ormai si dichiara, a un arco di lezioni esemplari che vanno dal plasticismo di Morlotti agli azzurri rabeschi floreali dell’inglese Sutherland (né dimenticherei le nervose ragnatele compositive di certi paesaggi di Pirandello).

Ma cerchiamo di spiegare un po’ meglio l’accennato confronto iniziale. In effetti, mentre nei quadri di allora il Pedrina si manifestava disponibile alle suggestioni di un’astratta invenzione decorativa, a suo modo metafisica e in certo senso perfino bizantina (non a caso il Valsecchi usò questo termine in occasione di una mostra alla “Bergamini” di Milano), in questi lavori recentissimi l’immagine pittorica scaturisce da un contatto diretto e preciso con un brano di realtà naturale: quasi sempre vite, tralcio, cespuglio. Attraverso questa assorta contemplazione di qualche angolo d’orto – indagato come una misteriosa foresta di segnali – lo schema compositivo si impagina secondo un ritmo lento e ramificato, che dilata a intarsio le sue componenti sulla certezza bianca della tela.
Questa urgenza di aderire a un brano di natura sospeso tra sensazione e memoria, per sorprendere un significato non arbitrario, si esprime essenzialmente attraverso il colore. Pedrina ricorre ad una gamma di toni che ne rivelano – in segreto, ma non troppo – l’irreversibile origine e vocazione di veneto. È un patrimonio di cui egli partecipa forse più naturalmente che culturalmente – ammesso e non concesso che questa distinzione sia accettabile – e che si traduce in u senso della luce liquida grondante, accentuato dal frequente ricorso alle velature.

In termini strettamente pittorici, questi mi sembrano i limiti tutt’altro che angusti della sua autenticità, a volte così leggera e intensa nello stesso tempo. L’incanto di Pedrina si regge appunto su questo equilibrio delicato e difficile tra istinto e ragione, tra natura e gusto. Siamo a pochi passi, forse, dal confine della estenuazione formale, dell’ambiguo e già rifuggito dominio delle piacevolezze eleganti. Un rischi, anche? Certo che lo è. Ma con l’onestà dei mezzi espressivi e, soprattutto, con il serio impegno morale di cui ha finora dato prova, Pedrina può affrontarlo a cuor leggero, senza paura: con l’allegria, anzi, di che sa di essere rimasto fedele alla pittura.

 

(Presentazione del catalogo mostra Galleria Zanini, Roma, 1969)

 

 

 


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